per chi vuole, deve o crede di cambiare lavoro

sabato 20 giugno 2009

Perchè si cambia

Un lavoratore su cinque si propone di cambiare impiego. Per migliorare i guadagni, le prospettive, il rapporto con i dirigenti. Ma a ricoprire i ruoli più importanti sono soprattutto quelli che rimangono nelle imprese e per sei su dieci che hanno cambiato non c'è stato miglioramento retributivo.
di FEDERICO PACE
Ciascuno cova almeno un desiderio. Ciascuno porta dentro di sé un sogno diverso da quello degli altri. Eppure quando si tratta della vita in ufficio spesso il sogno finisce per prendere una forma condivisa e comune: la voglia di cambiare lavoro. Tanti sono, soprattutto in questi primi giorni dell’anno, quelli che pensano alla possibilità di prendere le cose e filarsela via. In un altro posto. In un’altra azienda. Tanto che se c’è una cosa, almeno una, che unisce impiegati e manager, questa è proprio quel taciuto desiderio di trovare un impiego migliore.
Per il 2007, secondo alcune indagini pubblicate in questi giorni, un lavoratore su cinque si propone di trovarsi un’altra impresa. Le ragioni sono quelle tradizionali: l’insoddisfazione per la busta paga e la disillusione per le prospettive di carriera. In Italia, secondo i dati Plus-Isfol, solo il 49,9 per cento degli italiani è soddisfatto delle prospettive di carriera. E la retribuzione attuale appaga solo il 53,8% dei lavoratori.
C’è, secondo gli esperti, una stretta correlazione tra il livello di soddisfazione del lavoro e la voglia di cambiare lavoro. Tanto che si arriva anche a parlare di una specie di ciclo periodico in cui si alternano l’insoddisfazione per il lavoro, l’effetto "luna di miele" appena si cambia lavoro (con una specie di felicità indipendente dalle condizioni oggettive) a cui fa seguito una inesorabile “ricaduta”. Con il rischio che dopo qualche mese si ripresenti il problema.
Ma dove è che il desiderio di lasciare un posto si fa più evidente? In quali imprese lavorano i dipendenti che più di altri si sentono spinti a lasciare la strada vecchia? “Il fenomeno – ci ha detto Paolo Citterio, presidente dell’Associazione direttori risorse Umane (Gidp/Hrda) network di 1850 direttori o dirigenti del personale - si sente soprattutto nelle imprese medie e piccole. Nelle imprese grandi c’è la “tavola dei rimpiazzi”, ciascuno è destinato ad andare in un posto superiore, quando uno dà le dimissioni, c’è sempre un altro che può prenderne il posto. Nelle medie e piccole aziende questa politica non c’è e le persone provano più disagio. Sono imprese che formano il tessuto italiano, ed è soprattutto in queste imprese che si impara bene a conoscere il funzionamento di un'impresa, ma quando si sta in un’azienda piccola o media che non dà prospettive di carriera è meglio provare cambiare.”
Insomma le dimensioni contano. Ma a rendere difficili le cose ci si mette anche il complesso rapporto con il diretto responsabile. Secondo i dati dell’indagine Kelly Global Workforce Index, realizzata da Kelly Services, multinazionale di servizi per le risorse umane, gli italiani sono tra i lavoratori che vanno meno d’accordo con i capi. Se potessero assegnare loro un voto, i responsabili si dovrebbero accontentare di un misero 6,2. Voti bassi su quasi ogni aspetto: appena sufficiente per leadership e attitudine alla delega delle responsabilità e insufficiente per la comunicativa e lo spirito di squadra. I più critici sono soprattutto quei lavoratori nel pieno della “maturità": chi ha 35 anni assegna un 5,9 e chi ha tra 45 e 54 anni solo 5,5.
Ma cambiare azienda non sempre paga. Muoversi conviene soprattutto nelle prime fasi di sviluppo della propria carriera. Sono i giovani a trarre maggiori benefici dai passagi da un'impresa all’altra (non sempre volontariamente). Gli incrementi salariali avvengono soprattutto nella prima fase. Ma forse quello che più conta è che a coprire i posti direttivi nelle imprese sono spesso i candidati interni all’impresa. All’inizio della carriera uno o due cambiamenti sono buoni ma in seguito c’è da stare più attenti. Dai dati dell'Isfol emerge che poco meno della metà degli occupati (il 46%) ha cambiato almeno una volta mestiere o professione nella propria vita lavorativa, ma per il 50% di loro non c'è stato alcun miglioramento in termini di affermazione e carriera mentre per oltre il 58% non ci sono stati miglioramenti retributivi.
Secondo i recenti dati dell’ultimo Eurobaromentro, il 21% degli italiani non ha mai cambiato azienda durante l’arco della propria carriera professionale e il 47% lo ha fatto tra una e 5 volte. Solo il 3% più di sei volte. Il 28 per cento lavora con lo stesso datore di lavoro da più di dieci anni e il 13% da almeno sei anni. Solo il 3% da meno di un anno.
Ovviamente il mercato esterno condiziona le decisioni individuali. Allora, come sarà il mercato del lavoro nei prossimi mesi? Seppure i dati Istat hanno mostrato un tasso di disoccupazione ai minimi dal 1992, il mercato del lavoro italiano sembra muoversi pochissimo. Da qui a marzo, secondo le stime di Manpower, l’evoluzione del mercato sarà ancora molto tiepida. Solo otto aziende su cento si dicono pronte ad assumere. Soprattutto quelle operative nel settore dei servizi finanziari e in quello dei servizi sociali alla persona

copiato da: Miojob

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